MOBBING


Il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore non sempre si basa su rispetto reciproco e la normativa relativa al c.d. mobbing regolamenta la materia. Il datore di lavoro, infatti, è senza alcun dubbio la parte forte del rapporto e il lavoratore potrebbe essere sottoposto a trattamenti umilianti o non consoni all'ambiente lavorativo.
La Suprema Corte di Cassazione, sentenza 7382/2010, qualifica il mobbing nei seguenti termini: il mobbing è un comportamento riconducibile alla violazione degli obblighi derivanti al datore di lavoro dall’articolo 2087 c.c., ossia una condotta nei confronti del lavoratore tenuta dal datore di lavoro, o dei dirigenti, protratta nel tempo e consistente in reiterati comportamenti ostili che assumono la forma di discriminazione o di persecuzione psicologica da cui consegue la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi dell’equilibrio pscico - fisico e della personalità del medesimo.

Quindi, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono rilevanti :
a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente;
b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
c) il nesso eziologico (ossia la causa) tra la condotta del datore o del dirigente e il pregiudizio all'integrità psicofisica dei lavoratore;
d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (ossia la volontà di compiere un comportamento volutamente persecutorio).

Le singole fattispecie moleste solitamente non raggiungono la soglia del reato e possono essere, invece, anche comportamenti perfettamente legittimi. Il confine tra il lecito e l'illecito si supera qualora le persecuzione e le ipotesi di mobbing si manifestano in comportamenti plurioffensivi continuativi e rivolti solamente ad un lavoratore o ad un gruppo di lavoratori.

Qualora il datore di lavoro o il direttore dello stabilimento prende di mira un dipendente e lo umilia senza motivo o si accanisce ripetutamente e solamente contro lo stesso lavoratore deve risarcire il danno derivato da mobbing.
Esempi di mobbing possono essere:
- insulti davanti ad altri dipendenti;
- demansionamento senza motivo;
- far prendere servizio durante il turno di notte solamente ad un lavoratore senza mai ruotare il turno;
- criticare senza motivo e senza ovvie ragioni l'operato del dipendente in modo ripetitivo e continuativo...

L'azienda e il datore di lavoro saranno egualmente responsabile qualora, pur non ponendo in essere direttamente detti comportamenti, sono a conoscenza che il capo reparto, ad esempio, pone in essere comportamenti vessatori contro un proprio sottoposto e sia il datore di lavoro o il preposto a tale compito non si adoperano al fine di rilevarne i motivi e interrompere detto comportamento.

I vertici aziendali possono anche porre in essere il c.d. mobbing strategico, ossia isolare un collega e addebitargli determinate responsabilità non a lui dovute al fine di indurlo al licenziamento.

La normativa del diritto del lavoro è sensibile all'argomento in esame e il Giudice del Lavoro potrebbe, qualora ne riscontri i presupposti, condannare il datore di lavoro al pagamento di un risarcimento danni molto salato in favore del lavoratore.


Per ulteriori chiarimenti contattare i seguenti recapiti:
Avv. Roberto Righi
Tel.: 347.4445105
e.mail: studiolegalerighi@alice.it

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